Il libro dei conti del Guercino 1629-1666
Autore/i | Denis Mahon, Barbara Ghelfi | ||
Editore | Nuova Alfa Editoriale | Luogo | Bologna |
Anno | 1998 | Pagine | 256 |
Dimensioni | 17X24 (cm) | Illustrazioni | 32 ill. colori n.t. |
Legatura | bross. ill. a colori | Conservazione | |
Lingua | Peso | 1100 (gr) | |
ISBN | 8877795123 | EAN-13 | 9788877795120 |
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Con una consulenza scientifica di Sir D. Mahon.
Proviamo a immaginare di trovarci nell’Italia del Seicento e di dover fare una piccola indagine sulle tariffe dei pittori di maggior grido attivi in quel secolo tra Bologna e Roma. La prima cosa che si verrà a notare è che gli artisti non calcolavano i loro onorari sul tempo impiegato, né sulla fatica profusa né tantomeno sulle dimensioni dei quadri. Utilizzavano come unità di misura le “teste” o le “figure” inserite nei dipinti: più teste si mettevano, più si veniva pagati. Capire però quanto potesse costare al committente una singola testa non era cosa facile, perché attorno alla determinazione delle tariffe pro capite mancava ogni tipo di regola.
Domenichino, ad esempio, evitava abilmente di proporre tariffe fisse; così, a seconda di chi aveva davanti, poteva permettersi di sparare cifre burrascosamente fluttuanti, e in tal modo si regolò almeno fino al 1621, quando il suo onorario venne ad assestarsi sui 100 ducati per figura.
Francesco Albani si spinse oltre: arrivò a chiedere al duca di Mantova Ferdinando Gonzaga - per il quale aveva realizzato gli affreschi della Villa della Favorita - un mirabolante stipendio fisso, ma il duca lo allontanò in malo modo definendolo un “impertinentissimo pretensore”.
Molto più soft era la tecnica di Guido Reni, che preferiva lasciare al cliente la formulazione dell’offerta, riservandosi però la prerogativa di negoziare all’ultimo momento un aumento dell’onorario o un regalo integrativo. I regali erano una consuetudine molto comune delle retribuzioni degli artisti, come dimostra il caso di Marcantonio Franceschini che molto spesso si faceva pagare i quadri a suon di biancheria intima, argenteria, mobilia e persino scatole di canditi e cioccolato.
L’unico artista che andava vantandosi di applicare ai suoi quadri un prezzo fisso era Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino. Il pittore aveva avuto un’intelligente intuizione commerciale, perché il prezzo stabilito a priori facilitava gli accordi tra le parti, chiariva immediatamente le modalità di acquisto e permetteva di raggiungere più facilmente una clientela geograficamente lontana. In una lettera datata 8 giugno 1639 lo stesso Guercino fa cenno ai suoi onorari: “Per le figure intiere io sono riconosciuto per lo meno di cento ducatoni d’argento per ciascuna, per le mezze figure cinquanta”.
Il mito del prezzo fisso di Guercino è sopravvissuto nei secoli, ed ora che si è resa disponibile una nuova edizione integrale del celebre Libro dei conti di Guercino curata da Barbara Ghelfi con la consulenza di Sir Denis Mahon (Nuova Alfa Editoriale), sarà possibile verificare la reale consistenza di questa convinzione. Il Libro dei Conti è un manoscritto conservato nella Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna e contiene l’elenco delle opere realizzate dalla bottega del Guercino dal 1629 al 1666, con la dettagliata specificazione dei soggetti dei dipinti, dei prezzi di vendita e dei nomi di committenti, acquirenti e intermediari. Allegati al libro si conservano anche una quarantina di fogli sciolti, nei quali i contabili della bottega elencarono liste di opere vendute, riscossioni di affitti e cedole di “frutti decorsi”, ovvero di interessi maturati.
Inutile sottolineare che questo arido registro da ragionieri è in realtà un documento di enorme importanza sia per la conoscenza delle opere del Guercino (elencate in un numero assai maggiore di quelle oggi conservate), sia per la comprensione delle dinamiche economiche con cui veniva gestita la sua ben avviata bottega.
Il libro copre un arco cronologico di oltre 30 anni e venne compilato da tre improvvisati contabili: il pittore Paolo Antonio Barbieri, fratello del Guercino, che si occupò della compilazione dal 1629 fino al 1649, anno della sua improvvisa morte; lo stesso Guercino, che prese in mano i registri dal 1649 al 1665 redigendoli con scrittura sciatta e infarcendoli di molte imprecisioni; e infine il nipote di questi Benedetto Gennari, che si accollò l’impegno delle registrazioni nell’ultimo anno di vita dello zio (1666).
Ad una prima analisi, appare confermato che il pittore tenesse affisso in bottega un simbolico tariffario per i quadri: 25 ducatoni per una testa, 50 per una mezza figura, 100 per una figura intera. Naturalmente queste cifre andarono aumentando negli anni, e quando alla morte di Guido Reni (1642) Guercino conquistò il primato del mercato artistico bolognese, le sue tariffe si alzarono sensibilmente: 30 ducatoni per una testa, 60 per una mezza figura, fino al culmine dei 190 ducatoni richiesti nel 1660 per una semplice testa con busto.
Osservando però le liste in dettaglio, si osserva che queste regole non erano sempre rispettate. Guercino faceva spesso sconti a committenti amici o a compaesani, permetteva agli enti ecclesiastici di pagarlo a rate, e applicava cifre forfettarie per le grandi pale d’altare, che di solito vendeva a 300-400 ducatoni cadauna. Tendeva invece a rincarare i prezzi dei quadri destinati alla committenza non emiliana, forse perché scaricava sul destinatario le spese di trasporto e di intermediazione; oppure non disdegnava quasi mai di arrotondare i compensi con mance o regali di varia natura.
Le persone che si rivolgevano a lui appartenevano un po’ a tutti i gradi delle gerarchie civili ed ecclesiastiche: c’era la grande nobiltà emiliana e romana, c’erano i Cardinali Legati di Bologna e Ferrara (che lo faranno conoscere a Roma), c’erano gli ordini ecclesiastici, i capitoli delle cattedrali, le confraternite, e non mancavano neppure gli esponenti della media e piccola borghesia mercantile, probabilmente incoraggiati nel rivolgersi a lui dai suoi mitici prezzi fissi. Inoltre Guercino doveva trattare con numerosi intermediari e agenti conto terzi, i quali appartenevano solitamente a classi sociali più basse: fattori di conventi, guardarobieri di nobili, pittori e “intenditori d’arte” di seconda e terza categoria.
A giudicare dai guadagni, il maestro emiliano venne amato e corteggiato per decenni, anche se proprio la lettura dei bilanci dimostra come, con l’avanzare degli anni, egli fosse sempre meno oggetto di richieste: negli anni d’oro della carriera, attorno al 1650, l’artista giunse a guadagnare anche 4mila scudi l’anno, ma solo dieci anni più tardi sarebbe arrivato a malapena a superare il tetto dei mille.
L’ultima opera che il pittore vendette fu un “quadro con dentro la Trinità Terestre” (oggi nella chiesa di San Giuseppe a Pinerolo), pagato 250 ducatoni dal “Sig. Pietro Cattanio”. Dopo quella annotazione il Libro dei conti si chiude. Resta giusto lo spazio per l'ultimo appunto vergato dal nipote Gennari: “A dì 22 decembre 1666. Il Sig. Zio Gio. Francesco Barbieri terminò e suoi giorni e le sue gloriose fatiche”.
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